Gianni Berengo Gardin, L’occhio come mestiere. Al MAXXI, a Roma dal 4Maggio al 18Settembre, il fotografo che ha scelto di fare foto “buone”.

Il titolo della mostra è una sintesi perfetta per un percorso di visita e di esplorazione di una vita votata alla fotografia. 

Gianni Berengo Gardin, classe 1930, maestro assoluto del bianco e nero, pensa e concettualizza un reportage che, come lo stesso Gardin ci dice, fa di una foto una foto buona e non bella. 

Lui dichiara di voler essere un fotografo fotografo e non un artista, perché se una foto bella è il risultato di un’ottima tecnica, a lui interessa che sia sporca di contenuti e di significati, a lui interessa fissare la vita e raccontarla nelle sue contraddizioni. 

Un artigiano della fotografia, con una certa reticenza verso il digitale, verso il consumismo fotografico, un uomo che ha raccontato l’Italia, dal dopoguerra ad oggi.

Ligure di nascita e veneziano per vocazione e scelta, Gardin ha chiarissimo cosa sia la bellezza, ma la sua è una precisa scelta di campo. 

Venezia è il suo punto di partenza ed è anche un punto di arrivo, come si vede dalle foto del cantiere navale del 2013.

Gardin sceglie di fotografare eticamente, una scelta che gli fa preferire di fotografare non lo still life dell’Olivetti, ma gli operai, le macchine, tutto quello che ne rappresenta l’anima nella sua cruda verità, senza imbellettamenti di maniera. 

Le sue foto narrano dell’Italia, dei personaggi che ne hanno fatto la storia, la sua è una promozione di una visione sociale ed antropologica delle foto.

Tutto questo accade, anche quando si affaccia timidamente nel mondo del disagio mentale. 

Ne verrà un libro, morire di classe, grazie alla collaborazione con Carla Cerati, ma soprattutto si segnerà l’inizio di quel percorso culturale che approda alla legge Basaglia, una svolta epocale di cui lui si fa portavoce con convinzione. 

Gianni Berengo Gardin lo dice, ma le sue foto in questo non sarebbero equivocabili.

A lui non interessa raccontare la malattia, semmai le condizioni in cui versano i cosiddetti malati di mente. 

Anticonformista, si pente di non aver studiato, ma la sua voglia di vita lo porta a Parigi, respira atmosfere che lo arricchiscono e che lo fanno essere un fotoamatore che sceglierà la strada della gavetta per diventare un fotografo, per lui la fotografia è principalmente un mestiere. 

Un episodio su tutti descrive questo suo modo di essere; durante l’occupazione vigeva l’obbligo di consegnare armi e macchine fotografiche, lui trasgredirà e conserverà due rullini; in questa ribellione si delinea il suo destino di fotografo, ma anche l’essenza della sua personalità. 

Gli preme, prima di ogni cosa, raccontare, pensare ad uno scatto senza soccombere alla frenesia del digitale, il suo è un pensare attraverso le foto in maniera libera.

Ragionare per esprimere contenuti, al di là di qualsiasi tecnicismo.

Oggi dove la comunicazione è spesso costruzione di una forma che ”funzioni”, Berengo racconta la sua verità e lo fa senza badare all’estetica, preferisce e ci riesce molto bene, andare incontro alla realtà, per provare a capirla e, in alcuni casi, a smascherarla.

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