A PROPOSITO DI CORONAVIRUS

Dopo lo scoppio di questa pandemia abbiamo tutti seguito i telegiornali, mai come prima in cerca disperata di certezze. Noi moderni siamo stati educati a credere incontestabilmente nelle superiori capacità di dominio sulla natura da parte del genere umano, tramite la sublime forza della scienza. Ma questo virus in molti casi ci ha fatto perdere il controllo dei nervi, cosa  che è tipica di chi si trova in una situazione che appunto non riesce a controllare.

Siamo stati abituati ad avere una risposta rapida ad ogni domanda, forse una risposta troppo rapida, ma tranquillizzante.

Ora la scienza ci delude. L’unica certezza che hanno gli scienziati, a parte quelli che le hanno sparate veramente grosse, è che rispetto a questo virus non abbiamo una certezza, e dobbiamo navigare a vista. In questo mondo dove c’era un rimedio per ogni malanno, ora siamo improvvisamente tornati agli identici sistemi disponibili nel medioevo durante le pestilenze. Abbiamo seguito le regole, ma il virus è ancora tra noi, e forse ci sarà un’altra ondata cosa che destabilizza la nostra sicumera di umani contemporanei, contenti e vincenti.

Gli antichi erano più coscienti dei propri limiti, e avevano più rispetto per le forze misteriose della natura. Di fronte antichi vivano esse i saggi greci accettavano il dominio incontrastabile del fato, e concludevano che il rapporto migliore che l’uomo possa stabilire con tutto ciò che ci circonda sta in una parola semplice ma illuminante: “equilibrio”. È quello che noi moderni abbiamo dimenticato. “Pretendiamo di vivere sani in un mondo malato” ha detto Papa Francesco, e per quanto sia capitato spesso che i Papi affermino cose tanto utopistiche da confinare con il banale, questa volta le parole convincono, e non poco.

E il mondo è malato perché è assalito da quasi 8 miliardi di “batteri”, 8 miliardi di esseri umani educati a considerarsi assoluti arbitri e padroni di tutto; educati da una esigua classe dominante, che ha fatto dell’avidità illimitata, della necessità dello sviluppo continuo a tutti i costi, il credo infallibile dell’umanità.

Per fronteggiare i dubbi prodotti dalle ferite del pianeta, si parla sempre più  spesso di “sviluppo sostenibile”. Se ne parla nelle nazioni più avanzate, quelle a cui sono andati i maggiori benefici materiali. Ma se ne parla, appunto, perché parlarne fa chic. Però ci sono altre nazioni con miliardi di abitanti, la Cina, l’India, il Brasile, che questo sviluppo ancora lo devono raggiungere; e dopo penseranno anche alla parola “sostenibile”. Nel frattempo I ghiacciai si sciolgono, le foreste scompaiono, la plastica e il cemento dilagano.

E questi miliardi di esseri umani bisogna pur nutrirli. Si devono usare pesticidi, si devono fare allevamenti intensivi, nel rispetto del minor costo possibile, per ottenere il maggior profitto possibile. Così, anche nei paesi più “civili” del pianeta, si ammassano quantità inverosimili di animali da carne in ambienti così angusti da provocare infezioni che sterminato anche il 30% dei capi. Ma niente di grave, si tratta di perdite calcolate. Senonché capita che gli agenti patogeni dagli animali passano all’uomo, la natura ha i suoi meccanismi riequilibratorii, come è capitato per i pipistrelli in Cina, come capitava nel medioevo con i topi per la peste.

Questo è quello che capita quando scompare dal nostro vocabolario, e dalla pratica la parola “equilibrio”. Ed è per esserci dimenticati di questa parola che ci innervosiamo così tanto quando la scienza non risponde alle nostre domande impazienti.

Ezio Giuffrida

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