Coronavirus, fragilità, globalizzazione

Una riflessione della Chiesa Cattolica:

E’ evidente che l’emergenza del Coronavirus – Covid-19 sta cambiando profondamente le nostre vite, mettendoci in una condizione che ci servirà da lezione per il futuro. Mentre ci mobilitiamo perché questa fase non diventi un’occasione di ulteriore isolamento ed emarginazione reciproca – in particolare per i più poveri e dimenticati – è importante trarre dalla vicenda che stiamo vivendo qualche motivo di riflessione.
Si tratta di una crisi per molti aspetti nuova, spiazzante e anche imbarazzante, che investe per la prima volta in questa forma anche il nostro mondo ricco e industrializzato; e che per di più ci mette ‘dalla parte sbagliata’ del mondo, tra coloro che sono rifiutati e criticati in maniera anche un po’ ingiustificata e generalizzata. E questo, in tempi di ‘prima gli Italiani’ non può che farci riflettere.
Ma le dinamiche che stiamo vivendo, nuove per noi, non sono sconosciute in molti Paesi che hanno subìto in tempi anche recenti il passaggio di flagelli come l’epidemia di Ebola, che ha duramente colpito pochi anni fa alcuni dei paesi più poveri dell’Africa Occidentale, per non contare tutte le altre ‘epidemie’ che quotidianamente colpiscono i paesi poveri e che nel silenzio, continuano a mietere vittime suscitando poca o nulla solidarietà. Il primo elemento che occorre sottolineare è proprio questo: nessuno è veramente al sicuro e la salute è veramente un ‘bene pubblico globale’, che va difeso a beneficio di tutti, e dove il pericolo non arriva davvero con l’umanità disperata che attraversa il mediterraneo a bordo di “gusci di noce”. Siamo in un momento in cui oltre al dramma della diffusione di un virus ancora poco conosciuto, vediamo il dramma di una umanità trattata come carne da macello: progetti politici che trovano facile sponda in chi invoca ‘quarantene’ punitive, mentre il virus si diffonde serenamente attraverso settimane bianche e feste di carnevale… Stiamo vivendo una fase talvolta paradossale, dove i messaggi e i comportamenti spesso non considerano nel modo più assoluto il vissuto di intere categorie di persone. A partire dal monito “restiamo a casa”, specie se rivolto anche a chi una casa non ce l’ha, in Italia come in tutto il resto del mondo più o meno globalizzato…
Le emergenze sanitarie colpiscono tutti e hanno bisogno del concorso di ciascuno per essere fronteggiate, in una condivisione di tutte le risorse che possono essere messe a disposizione. Ed in questo, nel massimo sforzo di tutti gli enti pubblici e privati, il ruolo dei poteri pubblici è fondamentale: occorre riflettere sul fatto che uno stato indebolito, finanziato con un carico fiscale spesso ingiustamente ripartito e dove esistono ancora aree importanti di evasione ed elusione, rappresenta l’ultimo baluardo alla salute di tutti e di ciascuno. Uno stato che già sopporta eccessive diseguaglianze, non può crearne di nuove, anche potenziali, o solo ipotizzare di rafforzarle ancora di più, o indebolire la capacità di risposta di un settore pubblico che assieme alle forze della società civile rimane l’unico a garantire i diritti dei più deboli.
Ma esiste un’altra considerazione che deve essere fatta. Tra le terapie sperimentali che vengono utilizzate per l’attuale epidemia vi sono anche vari ‘cocktail’ anti retrovirali: le stesse medicine impiegate per fronteggiare la diffusione dell’AIDS. E le stesse medicine che furono al centro di un lungo e faticoso dibattito sulla proprietà intellettuale (e dei relativi costi), talvolta protetta in modo del tutto squilibrato anche a discapito delle esigenze di salute pubblica. Non è un caso che il Forum Disuguaglianze e Diversità – a cui partecipa anche Caritas Italiana – identifichi in questo elemento la prima questione da porre per un percorso verso una società più giusta: sostenere il ruolo della conoscenza come bene comune. Questo richiede di modificare l’accordo internazionale “TRIPs” sulla proprietà intellettuale, di promuovere con l’Unione Europea un nuovo accordo internazionale sulla ricerca medica, di rafforzare il potere degli Stati nella negoziazione dei prezzi dei farmaci e delle terapie, a maggior tutela dei più poveri ed esclusi.
La stessa disomogeneità che si produce a livello globale, dove la maggiore esposizione alle ondate epidemiche si trova nei paesi poveri, si riproduce nelle nostre società, quando si cerca di capire chi sta pagando il prezzo maggiore di questa situazione: si tratta di coloro che già vivevano delle forme di fragilità o di vulnerabilità sia da un punto di vista sanitario che da un punto di vista psicologico, sociale ed economico. Esiste, in Italia e nel mondo, una fascia importante di popolazione la cui sussistenza è strettamente legata all’attività quotidiana, talvolta con il ricorso a servizi assistenziali, talvolta in una economia di limite, spesso ai margini del circuito economico formale, le cui ‘riserve’ personali, familiari e sociali non sono sufficienti a far fronte ad un rallentamento delle attività, in pratica con una ridotta possibilità di “resilienza”.
Oltre a chi vive ai margini, occorre però ricordare coloro che pur essendo normalmente inseriti in un circuito economico dinamico e virtuoso soffrono i contraccolpi economici dei fatti di questi giorni: soprattutto coloro la cui scala di attività consente solo un certo grado di capacità di risposta a shock esterni, e solo purché limitati nel tempo: piccoli imprenditori, artigiani, professionisti, ecc. Sono tantissimi i settori economici coinvolti in questo rallentamento, e tantissime le famiglie e le persone che si troveranno in difficoltà a causa di questi eventi. Si tratta di famiglie, persone, operatori economici che rappresentano un tessuto fondamentale nella nostra economia e sono stati in molti casi già messi duramente alla prova da una lunga fase di crisi economica. A partire dal settore non profit attivo nel sociale, con l’aggravante che a farne le spese sono ancora i più poveri e svantaggiati, destinatari dei loro interventi.
E’ importante che a queste due categorie si rivolga prioritariamente l’attenzione di tutta la comunità nazionale, subito dopo aver fatto fronte all’emergenza sanitaria.
Un’ultima riflessione che è necessario fare è però quella relativa agli effetti del rallentamento dell’economia rispetto ai destini del pianeta. E’ noto che da molti anni si anticipa il ‘World Overshoot Day’, vale a dire il momento in cui l’umanità nel suo insieme esaurisce le risorse messe a disposizione in un anno solare, e comincia a consumare ‘a credito’ utilizzando riserve che quindi non arriveranno alle generazioni future. Nel 2019, questo giorno è stato il 29 luglio, in anticipo di 2 giorni rispetto all’anno precedente. Ogni giorno di anticipo rappresenta un aggravamento del peso ecologico dell’umanità sul pianeta, e dunque un ulteriore passo verso una crisi globale. Ma quest’anno ci si può attendere un andamento diverso: già le più recenti foto satellitari mostrano con chiarezza la diminuzione dell’inquinamento nelle zone della Cina che hanno sperimentato la prima fase della diffusione del virus; è dunque lecito attendersi che a causa del rallentamento dell’economia globale non vi sia alcun anticipo dell’Overshoot, o che il ritmo di questo anticipo sia almeno rallentato. Si tratta di una buona notizia? Non sono certo una buona notizia i costi umani che l’epidemia di Coronavirus sta causando sul pianeta; ma occorre cogliere il segnale che questa vicenda ci offre: è necessario un cambiamento radicale nei nostri modelli di produzione, commercio e consumo, dove l’attività economica viene in qualche modo ridotta (soprattutto per quanto ha a che vedere con il consumo materiale), e riorientata nella direzione di attività economiche a servizio del bene comune e del futuro di tutti, di uno sviluppo umano che sia davvero integrale, per dirla con Papa Francesco.

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