Due mogli: gli anni Ottanta, l’Italia che non c’è più e il coro delle donne che hanno spianato la strada dell’autonomia – VIDEO

Maria Pia Ammirati Premio Magna Graecia Book Festival 2019

«I fatti avevano un senso intrinseco dettato dal tempo e dallo spazio. Tempo di durata, luogo di avvenimento, ma anche tempo da dedicare alla cronaca e spazio giusto dove raccontare».
Quarantotto ore e trentanove anni, ottantacinque morti e più di duecento feriti; soltanto due sopravvissuti. Un romanzo palindromo che sfrutta con sapienza l’attesa della bomba.
“Una scrittura che ha la qualità dell’accumulo e, nello slittamento dalla prima alla terza persona, regala uno spaccato sia soggettivo che epocale” ha detto Guido Barlozzetti, durante la presentazione del libro di Maria Pia Ammirati, in seno alle iniziative dell’estate romana, che si snodano lungo i fianchi del Tevere. E Barlozzetti ha ricordato al pubblico che lo stile di Ammirati è a ‘scomposizione diacronica’, un affaccio necessario tra destino e casualità scandito da fotogrammi.
Due mogli. 2 agosto 1980 è il titolo dell’ultimo romanzo di Ammirati, edito Mondadori già da un anno ma proteso verso il quarantennale della strage che cade nel 2020. La stessa data (2 agosto) che torna con prepotenza rammentando al Paese una strage e le sue rimozioni, nell’arco narrativo di un solo giorno d’estate.
Marta e Matilde vivono a Roma, sono vicine di casa e mogli; asimmetriche: per fisicità e ruolo materno. La prima ha partorito cinque femmine, ha un aborto volontario alle spalle ed è lo specchio della seduzione, la seconda ha due maschi ed è “la donna dell’ordine”. S’invidiano e attraversano in modo affatto simile l’ondata di consapevolezza sessuale della classe piccolo borghese, amplificata dalle prime riviste dedicate. Essere moglie non era certo una forma di aggettivazione, o un semplice stato civile; non nell’Italia degli anni Ottanta e forse nemmeno in quella di oggi. Moglie, nel settimo romanzo di Ammirati, è sostantivo e postulato di un ordito che mette in parallelo il collasso dei destini minimi e la ferita della Storia collettiva.
Come ci riesce? Intanto con i pronomi: dall’Io narrante [Marina] il racconto enuclea i fatti scivolando alla terza persona sociale. E ancora, grazie al post modernismo linguistico delle pagine di giornale, collocate nel corpo del testo: «Le dieci e venticinque. Un attimo e molti destini si sono compiuti», scrisse Enzo Biagi, con un fraseggio paragonabile a quello del Cinque maggio di manzoniana memoria. Così anche le trame più alte che investono il gran recit, caduto nella meta narrazione con la fine del “centro” [la Storia] e il trionfo delle “schegge” [i fatti], alla conta dei dadi non spiegano il senso della salvezza di alcuni. Anzi, qui è l’elisione a permeare la scrittura: lasciando il fuoco dell’indagine e la riparazione dei motivi (della bomba, dei colpevoli e della fortuita sopravvivenza) a chi legge.
Ci sono morti e non responsabili, ci sono corpi bruciati, ci sono uomini secondari – i mariti suppellettili e i figli accidiosi –, c’è un’orazione civile al femminile, c’è la fiction (un po’ finzione e un po’ cronaca di un altro secolo, il Novecento al suo apice d’ottimismo, nonostante tutto così vicino all’attualità). Quante trame di vita su quei binari titolava l’articolo di Biagi, all’indomani dell’esplosione. Settantasei morti e 147 feriti: «Nell’aria bruciata d’agosto si è alzata una nuvola di polvere sottile, ha invaso il piazzale sul quale mi sono affacciato tante volte» (Ibidem, «Corriere della Sera», 3 agosto 1980).
Ammirati apre con la Pina, una veggente emiliana dalla quale si reca la madre di Marina: «Di problemi così non può capire niente un uomo» e ci saluta con la felicità dei reduci. Gianna, una delle cinque figlie di Marta, e la stessa Marina dell’incipit, che esiste davvero. Entrambe impiegate alla stazione di Bologna, il topos metafisico del romanzo. Un sollievo brutale il loro, poiché quelli che vivono non sapranno farsi una ragione, né arrendersi allo scopo del ruolo di testimone che è toccato loro. «Gianna aveva chiare due cose nella vita: che non si torna indietro perché indietro significava famiglia, e che il lavoro era un bene da difendere coi denti e con le unghie». Restare genera sensi di colpa e cambia il futuro, ma non si torna indietro. Mai.

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