Io, mai niente con nessuno avevo fatto

da sinistra: Federica Carruba Toscano, Joele Anastasi, Enrico Sortino

La Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini presenta al Off/Off Theatre di Roma ”Io, mai niente con nessuno avevo fatto”, drammaturgia e regia Joele Anastasi, con Joele Anastasi, Enrico Sortino, Federica Carruba Toscano.

Repliche sino a domenica 17 novembre 2019.

La recensione di Giuditta Godano: 

Anni Novanta. Periferia di un Sud identico a tutte le latitudini. A scena aperta un corpo giace semi nudo, gli altri due sono eretti ai lati, come in un funerale le prefiche. Domina un bianco atemporale, che sa di lutto e purezza. Lo spettacolo di Anastasi è fisico, un lavoro a strati che inizia e finisce nel corpo ed evoca la Modesta protagonista de L’arte della gioia di Goliarda Sapienza. Quella selvatica amoralità dei campi, dei margini, delle isole dentro; quella contaminazione che è desiderio d’inesistenza. Una razza d’altronde non si distingue per il colore della pelle: è la cultura, l’abitudine alla socialità, il sangue, le passioni tragiche, la violenza nei rapporti, questo e tredici dominazioni caratterizzano la Sicilia come un promontorio separato dal resto del mondo. Lo sfolgorante abuso che Sortino – attore e sceneggiatore – fa del canone siciliano, rende lo spettacolo statuale e quindi modello infallibile di evocazione e di ombre. Tre sono le figure per l’appunto: un Cristo, una devota Maddalena e un ladrone, che in fondo è un altro povero cristo. Il Sud è questa tautologia di altissimi lai? Non solo. Andiamo per ordine, per quanto l’intreccio sia tutt’altro che paratattico, tuttavia la mise-en-scène è di un trittico allineato per frontalità e solitudini. Giovanni è il perfetto idiot savant: diciannovenne omosessuale, figlio bastardo come l’amatissima cugina, nonché incline alla danza, destinato fin dal principio al sacrificio rituale come la sua nudità suggerisce. L’epilogo del capro è, difatti, attributo della svestizione (leggi anticamera del sudario), poiché la Terra non è per i semplici, e lo preconizza sfidando il branco che violenta l’amata cugina-figlia-sposa. A questo fa cumulo di brutalità erotica l’infatuazione per il maestro di ballo, un trentanovenne dal passato torbido, che non disdegna la compagnia maschile, nonostante sia sposato ma per riconoscenza — dice. Giuseppe sarà l’untore, colui che contagerà Giovanni trasformandolo in sieropositivo. “Lo abbraccio e gli dico che gli devo dire delle cose molto importanti. Gli dico che io per lui, pure la femmina avrei fatto e che in ospedale mi hanno detto che ho l’Aids.” Per chi viene dal Sud non si tratta di drammaturgie cucite sopra la tela di un facile scandalo da periferia pasoliniana, né temi sociologici in odore di stereotipo, quanto cronache dell’ancestrale nodo d’amore e morte. E come ci si può salvare dall’amore? Nemmeno l’arte lo sa.

Lo spettacolo è denso, le figure reali, lo stretto che separa la Sicilia dal resto d’Italia una soglia: quasi invalicabile.

Ph Giuditta Godano

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