MENNULA, CIAURU E SUFFARU!
di Calogero Matina – Kalos
È la Sicilia dell’anno zero, immobile nel tempo, la Sicilia di cento anni addietro, delle vecchie zolfare. In cento anni, giorno per giorno, ora per ora, uomini, picciotti e carusi hanno quasi svuotato la montagna. Si avviano al lavoro di buon mattino dai paesi vicini, come facevano i loro padri, come facevano i padri dei padri. Rimarranno per otto ore sottoterra, per otto ore saranno incessantemente impegnati in un lavoro che li vedrà trasformati in talpe, proprio così, ora come allora, quando ancora al tempo dei romani in questa miniera a scendere giù erano i forzati, i galeotti delle prigioni imperiali.
L’ambiente, il caldo insopportabile, l’aria “accupusa” e i 35 gradi di calore rendono penosissima la permanenza sottoterra, ai minatori non resta che evocare incessantemente bibliche maledizioni. Sono costretti a lavorare senza indumenti, nudi, perché anche un piccolo straccio addosso provocherebbe loro irritazioni intollerabili.
Per chi come lui doveva raggiungere ogni giorno la miniera di zolfo Ciavolotta, quel viaggio, sarebbe stato l’ennesima sfida giornaliera, sia all’andata che al ritorno. Un faticosissimo tragitto a piedi scalzi, ancora al buio e per giunta con gli occhi pieni di sonno, a consolarlo all’andata, però, c’era l’immancabile odore di mennula, si proprio così di “mennula”. Il suo nome? Beh, tutti in miniera lo chiamano “ Mennula”.
Sono proprio in tanti a lavorare in quella miniera, mezzo paese c’è! Ci si deve alzare alle tre, per poi essere pronti alle quattro. Quella santa donna della madre di Mennula, Rosalia, la mattina, da un po’ di tempo gli fa trovare sulla sedia una canottiera e un pantaloncino, talmente usato che sono più le toppe che il pantaloncino, ma Rosalia, da buona madre, un giorno sì, un giorno no, va al lavatoio a pulire i panni di famiglia per poi stirarli a casa con il ferro a carbone.
Quegli indumenti, per Mennula, odorano di mandorle, di “scibina”, una sorta di sapone molle, che sua madre avrebbe estratto sapientemente dal mallo delle mandorle. Le donne in paese, la sera bruciano le bucce delle mandorle e dalla cenere che ne rimane ottengono la “lisciva” che utilizzeranno per lavare la biancheria. Ecco perché lo chiamano “Mennula”, perché all’andata profuma sempre di mandorla.
Non era l’unico a camminare scalzo in paese Mennula, visto che le scarpe, erano un lusso riservato solo a pochi.
Nel tragitto i più grandi, i picciotti, si facevano luce con le citulene (le lanterne) che alle quattro del mattino accendevano all’uscio di casa, ma non era il caso di Mennula, lui, non poteva permettersela a citulena, iddu, nicu nicu com’era, continuava a camminare al buio seguendo il pallido bagliore della luna.
Molti “patri di famigghia” erano costretti a partire il lunedì mattina, per poi ritornare in paese il sabato sera, questo avrebbe assicurato loro di guadagnare qualche lira in più. Sei lunghi ed interminabili giorni, che a molti facevano perdere la cognizione del tempo, già a metà settimana, i minatori riuscivano a scambiare il giorno con la notte, ma tranquilli, non era il caso di Mennula. I carusi venivano arruolati nelle solfare con contratto che avveniva tra la famiglia e il picconiere, il contratto per l’appunto veniva chiamato soccorso morto, il che è tutto dire.
Mennula, come molti, portava con sé la gavetta (contenitore) di alluminio, al cui interno, la madre aveva messo un pezzo di caciocavallo, tre sarde salate, tre olive nere condite con origano e aglio e un bel pezzo di pane.
I più grandi, i picciotti, e i patri di famigghia, avrebbero dormito accampati nella stessa miniera, distesi per terra, tra i cunicoli, alla meglio, magari se erano fortunati avrebbero trovato sistemazione sopra qualche straccio, in quel posto, s’era capito, non c’era spazio per la comodità.
Per raggiungere le postazioni di lavoro iniziavano una lunga discesa, e più si scendeva più era difficile respirare, tanto che l’aria si faceva sempre più rarefatta. Le citulene a stento riuscivano ad illuminare i cunicoli, e, ad ogni passo, la paura era quella di sentire l’antimoniu (idrogeno solfarato) un vero e proprio incubo per i minatori. I più esperti sapevano bene che quell’odore li avrebbe potuti fare saltare in aria se solo si fosse innescata una scintilla, e con i picconi che scavavano le pietre dure, la scintilla era messo in conto.
“ca sutta ‘nta stu ‘nfernu, puvireddi, semu cunnanati ‘a tirannia”. A manu di li lupi su’ l’agneddi”
“poveri noi, qua sotto in questo inferno, siamo condannati alla tirannia”. Gli agnelli sono in mano ai lupi
Ritornando alla gavetta di Mennula, per mangiare si risaliva fuori dalla miniera, e solo allora ogni carusu avrebbe dovuto tirare fuori dalla gavetta le tre sarde e consegnarle al picconiere, sarebbe stato lui a conficcarle nella coda con un fil di ferro (ferro filato) e a cuocerle immergendole nel profondo padellone di ferro pieno di zolfo liquefatto.
“Mentre ancora lo zolfo è liquido e ardente della gavità gli zolfatari usano cuocere certi loro cibi: e particolarmente le sarde salate. Basta, tenerle per la coda, calarle nello zolfo per un momento e ne escono rivestite di una crosta di zolfo. Tolta la crosta, ormai solidificata, ecco la sarda cotta: di un sapore che un po’ tiene di certi pesci affumicati ma con in più il sentore dello zolfo, per noi, vi assicuro piacevolissimo.”
Leonardo Sciascia
Immancabili erano, nella gavetta dei grandi “i patri di famigghia”, li mulanciani “ingessati”, murate insomma. Le brave massaie incidevano le melanzane creando delle fessure ai lati e allargandole, una per una con la punta di un coltello, avrebbero inserito doviziosamente un trito di prezzemolo misto ad aglio tritato, una manciata di beddu pecorino siciliano e cosacavaddu a pezzi e una bella manciata di pepe nero, dopodiché, sistemato il tutto con la stessa attenzione riservata ad un rito sacro, le avrebbero cotte in pentole di terracotta, togliendo dapprima i cerchi roventi della griglia della cucina a legna, e collocando al centro la pentola. Scoperchiandola avrebbero irrorato il tutto con un filo generoso di olio d’oliva di casa, quattro pomodori ciaurusi raccolti nell’orto di famiglia, un po’ di strattu, che quaggiù in Sicilia è patrimonio di famigghia, e, quando sarebbero risultate ben cotte “cì sminuzzavanu u basilicò”. Quel piatto, da quel momento in poi, l’avrebbero chiamato “mulinciani a quaglie”. Fatte raffreddare, le avrebbero ricoperte con foglie di ficu e legate con fili di raffia, e con opera degna di capo mastro muratore le avrebbero murate con un impasto fatto di gesso e velocità, lisciandole “beddi puliti”, come a volere sottolineare, che quaggiù anche l’occhio vuole la sua parte. Signori miei, il risultato? Una sorta di contenitore termico che avrebbe assicurato la fragranza e “u Ciauru” di mulinciana, così che i propri uomini a tempo debito, in miniera, avrebbero potuto consumarle anche a metà settimana.
Calogero Matina Kalos
Nel testo Sarde e altre cose allo zolfo Sciascia ci svela un’antica tradizione culinaria della sua terra, della sua gente, quella che amava di più. Diversi cibi ci racconta Sciascia si prestano a una simile cottura: l’agnello, le carni di pecora, diverse specie di pesci. Trattandosi di cucina povera, quella delle maestranze delle solfatare è facile pensare che in questa maniera si cucinava un po’ cio’ che si aveva a disposizione. Eppure sembrerebbe che lo zolfo contribuisca a esaltarne al meglio proprio il particolarissimo gusto delle sarde. Prima di pubblicare questo post ho fatto qualche ricerca, scoprendo che quella delle sarde non è una sortita culinaria occasionale di Sciascia. Il figlio più noto di Raccalmuto ha pubblicato alcune ricette su una rivista di cucina edita negli anni settanta: l’Apollo Gastronomico.
Di alcuni dei testi della Henry Beyle (che poi era il vero nome di Stendhal) scriverò più avanti. Mi piacerebbe riuscire a scovare qualche numero della rivista. Questo è uno degli aspetti che più mi appassionano quando scrivo. Si parte dalla biblioteche milanesi. Prima tappa d’obbligo la Sormani.
Intanto ecco uno stralcio delle sarde di Sciascia.
Ancora forse, in qualcuna delle poche zolfare rimaste in attività, lo zolfo viene depurato nei forni o calcheroni: che sono in tutto simili alle fornaci per i mattoni e le tegole, ma con in fondo un condotto in cui lo zolfo fuso, che ha il colore e la densità dell’olio, scende nelle cosiddette «gavite» in cui poi lentamente si rapprende nella forma di una tronca piramide quadrangolare. Mentre ancora lo zolfo è liquido e ardente nella «gavita», gli zolfatari usano (o usavano) cuocere certi loro cibi: e particolarmente le sarde salate. Basta, tenendole per la coda, calarle nello zolfo per un momento: e ne escono rivestite di una crosta di zolfo, forma grottesca e surreale da suggerire alla «pop art». Sgranocchiata la crosta, ecco la sarda cotta: di un sapore che un po’ tiene di certi pesci affumicati ma con in più il sapore dello zolfo, piacevolissimi.