Difendere i minori dalla brutalità del virtuale: un dovere ed una responsabilità civile ineluttabile.
Bauman parlava di una società liquida, dove i confini fra bene e male potrebbero disperdersi nei meandri di una complessità ingestibile. La virtualità è l’espressione massima di una flessibilità che necessita di confini netti per arginare il male che inevitabilmente si nasconde dietro uno schermo e fra fruitori inconsapevoli.
Il mare magnum che fa capo all’espressione internet, oggi trova nei social un corrispettivo di una struttura relazionale che non ha né basi solide, né regole rigide.
I social e le varie applicazioni che vivono di vita propria nei nostri computer prêt-à-porter, e cioè nei nostri tanto amati smartphone, simulano un contatto con la realtà che è fittizio per definizione.
I cosiddetti nativi digitali, ma non solo, vivono queste “non realtà” in un modo immediato e spontaneo, non hanno né la motivazione, né la consapevolezza per riuscire a discriminare cosa sia giusto e cosa sia sbagliato; necessitano, quindi, di una guida che li faccia entrare in punta di piedi e con tutte le precauzioni del caso in un mondo troppo complesso per essere letto in maniera approssimativa.
La conoscenza dei meccanismi sottesi a questi strumenti di pseudo socializzazione, è alla base per difendere noi ed i nostri piccoli dalle insidie del virtuale.
Il caso della ragazzina di Palermo, morta perché succube di una delle tante sfide che girano indisturbate sul social più in voga fra i preadolescenti e cioè Tik Tok, ha smosso le coscienze motivando delle prese di posizione, senza cogliere le sfumature di senso di un cambiamento antropologico che ha radici profonde nell’impalcatura stessa della nostra società.
Porre degli argini, mettere delle barriere difensive, negando l’accesso anche solo con la semplice predisposizione di un riconoscimento tramite codice fiscale, può non essere sufficiente.
Il cambiamento è strutturale ed è in atto, va gestito ed affrontato con un atteggiamento non anacronistico, bensì lungimirante.
Non si può invertire la tendenza, non si possono mediare contenuti di senso che appartengono ad altre dimensioni valoriali e di tempi ormai andati, si può imparare a conoscere e a gestire ciò che il nostro tempo ci impone.
Si possono educare i minori alle emozioni, perché in contesti dove il corpo è escluso, l’emozionalità va gestita con maggiore accortezza. Le sensazioni devono essere trasformate in emozioni di cui si abbia consapevolezza, mai paura.
Ciò che compete alla nostra società, attraverso i vari snodi e con livelli di intensità diversa, è il ruolo che compete a qualsiasi educatore, e cioè condurre per mano e non abbandonare i minori ad un destino di incertezza e di assenze cronicizzate.
La virtualità nasconde predatori di anime e lo fa in maniera indiscriminata, siano essi sadici maniaci del controllo o pedofili in cerca di nuove esperienze.
La perversione assume le tinte più fosche, ma i piccoli devono essere condotti verso la comprensione del possibile altrimenti, del male nella sua forma più sublimata, con la sicurezza che esiste un porto sicuro verso cui rivolgersi.
Fra tutti, i genitori hanno il dovere e l responsabilità di mediare il contatto con queste realtà. Non si può fare finta che non esistano, ma si può imparare a gestirle attraverso regole e con una presenza che è prima di tutto affettiva.
I percorsi di crescita sono articolati e necessitano costantemente di essere messi in discussione, il nostro dovere di educatori è quello di confrontarci con l’esistente, strutturando nuove consapevolezze che ci facciano da monito per il futuro. Le regole sono indispensabili, ma devono essere il risultato di una conoscenza reale e priva di preconcetti, la stessa che ci fa ascoltare i più piccoli e ci fa comprendere il loro mondo, fatto di emozioni primordiali e di desiderio di stabilità.