Giorno 3 marzo, presso l’associazione Onirica, la proiezione del documentario di Carmelo Stompo “NEVER STOP”, evento conclusivo della mostra La notte di Cutro.
Giorno 3 marzo si conclude l’evento organizzato dall’associazione Onirica come commemorazione dell’anniversario della strage di Cutro, mi riferisco alla mostra La notte di Cutro.
In questa giornata, alle 18:30, si proietterà, presso la sede dell’associazione, il documentario di Carmelo Stompo “NEVER STOP” a cui seguirà una conversazione con Augusto Gamuzza, docente di Sociologia all’Università di Catania.
L’evento in realtà è un doppio evento, perché si tratta di due mostre che raccontano il tema della strage, osservandolo da due punti di vista diversi; abbiamo voluto intervistare entrambi gli autori per capire il senso profondo della loro arte e del loro messaggio.
Un evento tragico che ha ed ha avuto molteplici implicazioni e che rimanda a tantissime riflessioni sul tema dell’umanità.
Un’umanità travagliata e spesso dimenticata, virtualizzata e svilita, ma che rappresenta l’essenza dell’essere umano, con tutte le sue virtù, difetti, emozioni e esperienze condivise…incarnando empatia, compassione e solidarietà. Questo il parere di Domenico Fabiano che ha sentito l’urgenza di fotografare la strage nella sua dimensione più cruda, la morte ed il fallimento di una società che non sa connettersi e comprendere gli altri.
In questo senso, per Domenico, la fotografia si fa strumento, pur rimanendo una visione di parte che potrebbe persino indulgere a forme di spettacolarizzazione, è lui stesso che cita Ferdinando Scianna “la fotografia mostra non dimostra”.
L’eco del “restiamo umani”, di pandemica memoria, riecheggia nei ricordi di Giuseppe D’amico, altro autore che invece della strage racconta, con i suoi scatti, il dopo, fra sopravvissuti e burocrazia. Per Giuseppe l’umanità è l’altro, ogni persona con la quale si rapporta ed entra in contatto. Una mentalità suffragata da fatti e da esperienze di vita, vissute all’interno del centro accoglienza con il quale ha collaborato per otto anni, fino al 2019. Umanità significa accogliere l’altro, incoraggiarlo a non rinunciare alle proprie aspirazioni.
Anche per Giuseppe, La fotografia non può mai essere oggettiva, è uno strumento potentissimo utile a rappresentare le trame di vita di questi ragazzi, anche se chiaramente filtrata dalla visione del fotografo.
La vicenda di Cutro ha un valore simbolico, se da una parte, come ci ricorda Giuseppe, si tratta di prendere atto del fallimento dello stato italiano, da sempre avvinto dalle mortali spire della burocrazia, dall’altro esprime quella che Domenico definisce come mancanza di empatia e come dargli torto quando afferma che se non cambia l’atteggiamento dei penultimi, quelli che si sentono minacciati dagli ultimi, continueremo a trovare le stesse tracce di umanità, sul fondo del Mare o sulle spiagge.
Due modi diversi di fare reportage, ma la stessa intenzione di riportare fatti nella loro autentica crudezza.
E’ innegabile che il punto di vista del fotografo debba comunque fare la differenza, qualsiasi reportage ha l’impronta di chi lo scatto lo ha eseguito, di quella che Domenico definisce prospettiva del fotografo, definita dalle sue scelte compositive e dal contesto in cui vengono scattate. Per Giuseppe questo significa che la fotografia è una forma di catarsi, ci tiene che emerga e che sia la sua cifra stilistica, l’opinione di Domenico è che ogni scatto non sia un semplice gesto meccanico, ma il frutto di tutto quello che più intimamente lo rappresenti. Modalità diverse che confluiscono in un intento comune, esprimere un messaggio da tramandare al pubblico.
Come ci ricorda Giuseppe, si tratta di operare una scelta e se c’è chi sceglie di spettacolarizzare il dolore, c’è anche chi sceglie un linguaggio diverso, altrettanto forte, ma meno comune.
Entrambi gli autori si esprimono artisticamente e per scelta solo attraverso la fotografia, un modo per relazionarsi al mondo che, nel caso di Giuseppe, si trasforma in una propensione verso la street, in questo modo asseconda quella che lui chiama inclinazione voyeuristica, un’osservazione delle vite altrui da una posizione di terzietà. Per Domenico si tratta di dare forma ai propri pensieri, grazie all’uso della luce, della composizione, del colore e del soggetto.
Abbiamo provato a scavare e ci siamo fatti raccontare che rapporto avessero con la dimensione del tempo; se la fotografia, per loro, rappresentasse un modo per fermarne lo scorrere o un racconto che si apre sul futuro.
Domenico parla del tempo allo stesso modo di Luciano De Crescenzo, il tempo ha senso solo se lo riempiamo di emozioni, di istantanee di realtà, solo se comprendiamo che passato, presente e futuro sono intimamente connessi tra loro.
Il passato è un modo di prepararsi al futuro e, come dice Giuseppe, nel concetto di immagine c’è insita la proiezione nel futuro perpetuata dalla memoria. Il messaggio è chiaro e trapela dalle sue stesse fotografie, per Giuseppe significa dare voce agli invisibili e fargli dire “non siamo invisibili, le nostre vite non sono irrilevanti”.
Le foto sono creature, figlie del mondo interiore e del racconto di vita di chi le scatta, per Domenico la foto della mostra che maggiormente lo rappresenta è quella di apertura della mostra, perché condensa tutta l’empatia che ha provato su quelle spiagge, quelle croci raccontavano una storia di disperazione, perdita e silenzio. Un silenzio, irreale, palpabile, che avvolgeva quella spiaggia. Soccorritori e forze dell’ordine erano presenti, tutti muti di fronte alla devastazione che si stagliava davanti ai loro occhi.
Per Giuseppe lo scatto più rappresentativo, all’interno della mostra, è il ritratto del ragazzo con la schiuma da barba sul viso, perché rappresenta una visione che nega e contraddice gli stereotipi e forse per questo più vicina al suo modo di essere.
Lo sguardo del ragazzo, quasi da ultras accanito, nascondeva una personalità totalmente diversa. Una foto contro i soliti luoghi comuni, ma allo stesso tempo di impatto.
Abbiamo chiesto loro cosa si sentissero di dire a quell’umanità dimenticata e Domenico ha preso in prestito le parole di Vincenzo Lucisano, pescatore tra i primi soccorritori sulla spiaggia di Cutro: “Sono un po’ stanco, un po’ deluso…”, Giuseppe, forse anche per il ruolo di avvocato che ancora investe nelle vite di alcuni di loro, fa un augurio che sa anche di speranza, augura loro di trovare il proprio posto nel mondo.
Il rischio di scadere nella retorica esiste, ma in occasione del primo anniversario della strage l’hard disk di Domenico, fino a questo momento scrigno protetto, ha liberato tutti quegli scatti che rappresentavano il suo racconto sulla strage.
Un racconto libero e che lascia liberi gli altri di riempire i propri vuoti con riflessioni ed emozioni personali. Domenico ci descrive come anche l’allestimento racconti questo spazio di libertà e se a delimitare lo spazio della parete avremo i resti della barca, a simboleggiare le murate della barca che avrebbero dovuto contenere e proteggere quella umanità in viaggio… le immagini (“segni” di umanità) dei resti trovati sulla spiaggia compongono un puzzle incompleto, lasciando delle caselle vuote affinché gli spettatori possano completare con i propri pensieri, sentimenti e riflessioni.
Per Giuseppe le sue foto dovrebbero essere uno strumento di conoscenza che possa indurre all’approfondimento del fenomeno migratorio.
La speranza è che si possano animare delle emozioni autentiche, ma lontani da ogni forma di strumentalizzazione e la scelta di non usare foto con bimbi risponde a questa posizione di principio.
Per Domenico lo scatto è una questione di istinto, a volte percepisce qualcosa che lo colpisce e solo in fase di revisione, ha la reale rivelazione di quella intuizione, per Giuseppe si tratta di una ricerca costante “dello scatto” ed il suo obiettivo è quello di portarne a casa almeno uno ogni volta che esce per fotografare. Lui, al contrario di Domenico, se ne accorge subito che è quello giusto e ne trae una grandissima soddisfazione.
Per concludere la nostra chiacchierata, abbiamo chiesto loro cosa pensassero dell’Intelligenza artificiale ed in questo caso la posizione è nettamente diversa.
Per Domenico l’uso dell’IA aggiunge un ulteriore strato di complessità all’equazione che vede la fotografia come una combinazione di registrazione oggettiva della realtà ed interpretazione soggettiva. Va mantenuta comunque alta l’attenzione perché la credibilità delle immagini non è una mera questione di diritto d’autore, ma c’entra con la visione etica, con l’impalcatura di senso di un’immagine. Per Giuseppe invece la IA non rappresenta valore aggiunto ma, da avvocato, ci tiene a sottolineare che non mancano gli strumenti legali, i protocolli che ci possono difendere da manipolazioni e creazioni non originali, spacciate per tali.
Questa mostra rappresenta una bella esperienza di visita ed un bel modo di approcciare la fotografia, il documentario di domenica è la giusta conclusione di un percorso che è conoscenza ed emozione allo stesso modo.