Crisi d’impresa – la nuova responsabilità degli amministratori e la quantificazione del danno arrecato alla società e ai creditori sociali.
di Giuseppe Rochira – Avvocato e Dottore Commercialista
L’art. 2086 c.c., così come modificato dall’art. 375 del nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, stabilisce la regola generale in base alla quale tutti gli imprenditori che operano in forma societaria o collettiva hanno il dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, che sia anche funzionale alla rilevazione tempestiva di una eventuale crisi e della perdita della continuità aziendale, al fine di adottare ed attuare senza indugio gli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale.
L’attuale ordinamento giuridico impone agli amministratori – anche privi di deleghe -, un atteggiamento che risulti improntato a: trasparenza, informazione, iniziativa, intervento e attivazione. Con il fine di consentire un efficace funzionamento dell’organo amministrativo, quantitativamente e qualitativamente diretto alla realizzazione dei principi di corretta amministrazione ed efficiente gestione della società nel perseguimento dell’oggetto sociale.
Gli assetti organizzativi e amministrativi della società, nonché le procedure di allerta che l’organo amministrativo deve prevedere, in un quadro organico delle attività che gli amministratori sono chiamati a svolgere, hanno l’obiettivo di definire anche la figura attuale dell’amministratore senza deleghe, fungendo da riferimento per tutti coloro che operano nell’ambito dei meccanismi collegiali di governance societaria.
Dal 16 marzo 2019, il ruolo proattivo nell’ambito del C.d.A. di tutti i componenti privi di delega è divenuto un effettivo supporto agli organi delegati, tanto da assumere – più di ieri - un valore insopprimibile per il governo della società e per la tutela degli interessi degli stakeholders. Pertanto il nuovo sistema delle responsabilità degli amministratori non delegati, che viene rafforzato in via generale dall’art. 2086 c.c., è più articolato rispetto al passato, stante la graduazione delle medesime e a seconda del ruolo effettivamente svolto nell’organizzazione societaria, rispetto agli organi delegati. Questi, essendo direttamente coinvolti nelle dinamiche aziendali, acquisiscono maggiore e completa conoscenza delle stesse e, dunque, hanno maggiori, e più dirette, responsabilità rispetto agli amministratori privi di deleghe.
La novellata disposizione dell’art. 2086 c.c., risultando mutuata da quanto disposto agli artt. 2381 e 2392 c.c., all’interno del codice oggi assume carattere generale rispetto alle seconde già vigenti, le quali vengono ad assumere carattere speciale. È così garantito, in ossequio alla business judgement rule, il dovere degli amministratori con delega di agire in modo informato e, per gli altri, l’obbligo di intervenire, per impedire fatti di gestione pregiudizievoli o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose che potrebbero derivarne.
In tema di s.r.l., con riferimento ai poteri-doveri di iniziativa e di intervento degli amministratori, l’art. 2476 co. 1 c.c. precisa che la responsabilità non si estende a quelli che dimostrino di essere esenti da colpa e che, essendo a conoscenza che l’atto si stava per compiere, abbiano fatto annotare il proprio dissenso.
Ebbene, dalla riforma del 2003 all’entrata in vigore del nuovo Codice della crisi d’impresa, poteva solo ipotizzarsi un’applicazione analogica delle disposizioni delle s.p.a. alle s.r.l., in quanto i due tipi di società avevano discipline distinte.
Oggi però, detto intervento di riforma ha modificato anche l’art. 2475 co. 1 c.c. (rubricato amministrazione delle società), rinviando espressamente all’art. 2086 co. 2 c.c., di cui si discute, elevandolo a modello di riferimento per un’ottimale amministrazione/organizzazione nelle s.r.l.
Pertanto, il novellato espresso riferimento al 2086 c.c. può considerarsi un avvicinamento della disciplina di s.r.l. e s.p.a., quantomeno in tema di responsabilità dei vertici amministrativi. Infatti, la portata generale del secondo comma dell’art. 2086 c.c. non può, come detto, non costituire un parametro comune ad ogni forma d’impresa ovvero di governance.
Dopo la novella, dunque, le responsabilità per danni derivanti da un eventuale deficit organizzativo si estenderanno anche ai consiglieri senza delega tutte le volte in cui non si saranno attivati senza indugio al fine di eliminare le deficienze riscontrate. Tal che, solo il diligente comportamento da essi tenuto, con richieste di informazioni e di rendiconto dirette ai delegati, al fine di farne adeguare o implementare le procedure esistenti, potrà far attrarre la loro responsabilità nell’ambito applicativo e di copertura della business judgement rule, come peraltro si evince dal contenuto letterale dell’art. 14 del Codice della crisi d’impresa.
In virtù delle modifiche apportate dall’art. 378 del nuovo Codice della Crisi d’Impresa agli artt. 2476 e 2486 cod. civ., è dunque certo che l’incremento delle future azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori, essendo stata estremamente semplificata – ipso jure – la quantificazione del danno patito dalle società fallite.
L’enormità del passivo, insieme all’esiguità dell’attivo, che il curatore (o il commissario straordinario) trova nelle procedure concorsuali, sollecitano oltremodo, tra le altre azioni a tutela dei creditori, l’esercizio dell’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori, oltre che nei confronti di altri organi sociali (sindaci, revisori, direttori generali e liquidatori).
Proprio in relazione a quest’azione in molti casi si è posta la questione concernente la quantificazione del danno, che oggi sembra essere stata – più o meno semplicisticamente – risolta dall’art. 378 della L. 155 del 2017 entrata in vigore in parte qua il 16/03/2019.
Prima dell’entrata in vigore della novella introdotta con l’art. 378 del codice della crisi d’impresa, dunque, ricorrendo i citati presupposti individuati dalla giurisprudenza, la valutazione equitativa del danno rappresentava una modalità accessoria e subordinata rispetto al pieno accertamento dell’ammontare del danno. L’art. 1226 c.c. prevede, infatti, che solo “se il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare è liquidato dal giudice con valutazione equitativa”.
L’art. 378 del nuovo codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza ha modificato innanzitutto l’art. 2476 c.c., introducendo un nuovo comma dopo il quinto, con cui si disciplina espressamente la responsabilità degli amministratori verso i creditori sociali (cfr. art. 2394 c.c. già in vigore per le S.p.A.) per l’inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale, e contemporaneamente si specifica il rimedio per i creditori ai casi di rinunzia all’azione, piuttosto che di transazione. Infatti, per un verso la rinunzia della società non spiega effetti per i creditori che possono comunque agire quando non soddisfatti dall’attivo patrimoniale; per altro verso anche la transazione, ove ne ricorrano i presupposti, può essere impugnata in revocatoria.
Se però la modifica dell’art. 2476 c.c. costituisce una tipizzazione della prassi d’impresa, quella che interessa l’art. 2486 c.c., viceversa, è positivizzazione della prassi giurisprudenziale, ancorché questa applicasse il principio ora normato solo in via residuale come spiegato ut supra.
Determinare il danno patito dalla società, dunque, con ogni probabilità ora sarà molto più semplice.
Il novellato art. 2486 co. 3, c.c prevede proprio il caso specifico in cui i giudici possono ricorrere a una valutazione “sommaria” del danno, avendo tra l’altro stabilito che “se è stata aperta una procedura concorsuale e mancano le scritture contabili o se a causa dell’irregolarità delle stesse o per altre ragioni i netti patrimoniali non possono essere determinati, il danno è liquidato in misura pari alla differenza tra attivo e passivo accertati nella procedura”.
A certificare la novella sopra richiamata, è già intervenuta la Corte Suprema di Cassazione.
Con la sentenza del 30 settembre 2019, n. 24431, infatti, la prima sezione della Corte nomofilattica, intervenendo sempre in punto di determinazione del danno e richiamando proprio il contenuto dell’art. 378 del codice della crisi d’impresa, dunque, quanto disposto dall’attuale art. 2486, co. 3, c.c., ha statuito il principio secondo cui: “deve ritenersi ammissibile la liquidazione del danno in via equitativa: sia nella misura corrispondente alla differenza tra il passivo accertato e l’attivo liquidato in sede fallimentare, qualora il ricorso ad un tale parametro si palesi, in ragione delle circostanze del caso concreto, logicamente plausibile per avere il curatore allegato, indicando le ragioni che gli hanno impedito l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore, inadempimenti da parte dello stesso che risultino idonei a porsi quali cause del danno lamentato; sia con ricorso, in presenza degli stessi presupposti e nell’impossibilità di una ricostruzione analitica per incompletezza dei dati contabili o per la notevole anteriorità della perdita del capitale sociale rispetto alla dichiarazione di fallimento, al criterio presuntivo della “differenza dei netti patrimoniali”.
In conclusione, soprattutto laddove abbiano reso impossibile la ricostruzione della situazione economico-finanziaria, la responsabilità per i danni patiti dalla società – che si riflettono ovviamente sui quelli patendi dai creditori – viene interamente ascritta agli amministratori anche in via equitativa, ossia sulla base della differenza dei netti patrimoniali ante et post fallimento. Beninteso, la portata innovatrice della novella consiste essenzialmente nell’aver certificato l’inversione del onus probandi in capo all’amministratore inadempiente.