L’importanza della memoria

“Le migrazioni in corso e il nostro modo di rappresentarle [..]marcano la fine dell’idea di Europa” dice Luigi Caracciolo, direttore della rivista Limes nell’articolo “Chi bussa alla nostra porta” e io concordo con la tesi esposta. Il progetto Europa, nato per unire i paesi e i popoli del continente europeo, per impedire il ripetersi delle tragedie della seconda guerra mondiale, ad oggi, si dimostra impassibile di fronte alle tragedie dei profughi.

 Per ricordare ciò che è successo agli ebrei ed evitare il ritorno di queste tragedie, abbiamo istituito il 27 gennaio il “giorno della memoria” che rischia di diventare un ricordo sterile che ci ronza nelle orecchie per mezza giornata, ma non riesce a spingerci ad agire.

“Se questo è un uomo” scriveva Primo levi riferendosi agli uomini e alle donne che morivano al freddo e al gelo nei lager tedeschi; “se questo è un uomo” dovremmo chiederci vedendo uomini, donne e bambini che muoiono di freddo in Bosnia mentre quella fastidiosa memoria ci ronza nell’orecchio; “se questo è un uomo” dovremmo chiederci, mentre osserviamo con l’occhio vigile dell’Europa centinaia di persone venire ammazzate su delle imbarcazioni di fortuna troppo strette per contenerli tutti e troppo piccole per trasportare i loro sogni; “se questo è un uomo” dovremmo pensare, vedendo coloro che perpetrano e lasciano perpetrare queste tragedie, è umano chi lascia passare queste tragedie di fronte ai propri occhi senza fare nulla?

Probabilmente la domanda di Primo Levi non era rivolta solo ai carnefici, ma non posso fare a meno di pensare: “è umano, compiere tutto questo?” e la risposta che mi sono sempre dato è stata no.

Un uomo che permette che queste tragedie avvengano, che si gira per non guardare è colpevole tanto quanto coloro che le attuano e mi viene da chiedermi, dunque, quanto siamo umani tutti noi?

Di sicuro, se dovessimo individuare qualcuno di veramente umano, sarebbero i ragazzi della” Rosa bianca”; ragazzi che combatterono contro il nazismo con i pochi mezzi a disposizione mettendo le proprie vita in prima linea come dei soldati al fronte, spronando la popolazione a fare qualcosa e mettendola a conoscenza di ciò che stava accadendo.

“fai quel che puoi in prima persona” dicevano questi ragazzi che rischiavano la vita ogni giorno; perché, quindi, noi che non rischiamo tanto quanto loro stiamo fermi, con le mani in mano mentre migliaia di persone perdono la vita? Penso che siamo la generazione che più di tutti potrebbe fare qualcosa col potere della rete, in grado di aiutare tutti coloro che ne hanno bisogno mentre “viviamo sicuri nelle nostre tiepide case”.

Ma dalla rete al concreto, c’è comunque bisogno di qualcuno che faccia da mediatore e uno di questi mediatori è il centro Astalli che è la branca italiana del servizio dei Gesuiti per i rifugiati e si occupa di dare un primo supporto ai ragazzi che viaggiano su quei barconi straripanti di sogni, uno dei quali è Marif.

Marif è un ragazzo della Guinea che fin da quando ha 14 anni, non ha fatto altro che viaggiare in lungo e in largo nel nord Africa per raggiungere le comodità che diamo per scontate, per raggiungere un luogo dove la gente non muoia di fame e dove i conflitti “non esistano”; nel suo lungo viaggio, Marif ha vissuto centinaia di situazioni differenti e tutte unite da un unico comune denominatore: la discriminazione.

Quella discriminazione su cui troppo spesso ci troviamo a chiudere un occhio, magari pensando “qui non c’è” oppure giustificando quei comportamenti con un “mica lo dice seriamente” fino a quando poi non diventano violenza ed esclusione, perché anche le parole hanno un peso e creano comportamenti , dunque la nostra battaglia pacifica deve essere quotidiana ,deve essere  un modo di vivere che non dimentichi mai il valore dell’uomo nella sua accezione più alta, senza questa consapevolezza ogni ricordo si trasforma in sterile archeologia.

Federico Schiavino V h

IIS Marconi-Mangano CT

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