L’isola di Mozia e la cosmesi nell’antichità
di Cristiana Zingarino
L’isola di Mozia e la cosmesi nell’antichità
di Cristiana Zingarino
La più grande di un piccolo arcipelago situato all’interno della Riserva dello Stagnone di Marsala in provincia di Trapani, l’Isola di San Pantaleo, nota anche come l’antica Mozia, in realtà consta di soli 45 ettari; il suo perimetro è infatti percorribile a piedi in poco più di tre ore, se lo si vuol fare con calma. Abitata fin dall’età preistoria (quella del Bronzo Medio), quando greci e cartaginesi si contendevano il dominio della Sicilia, agli inizi dell’VIII sec. A C, fu scelta dai Fenici per la sua collocazione strategica ideale per lo scambio di merci. Anche se non conosciuta da molti in tutta la sua bellezza, oggi è uno dei siti archeologici più prestigiosi al mondo grazie agli studi ed agli scavi ripresi nei primi del Novecento da un archeologo Giuseppe Isaac Spatafora Whitaker, nato a Palermo da una nobile famiglia inglese che, avendo fatto fortuna grazie al commercio del vino di Marsala, si erano stabiliti in Sicilia.
Raggiungibile tramite piccole imbarcazioni, l’isola accoglie i suoi visitatori con un’esplosione di profumi e colori tipici di una rigogliosa vegetazione mediterranea, soprattutto se visitata in primavera, pronta ad accompagnarli in un singolare viaggio nel passato. Iniziando con le fortificazioni della porta Nord, quella meglio conservata, è possibile intravedere un edificio a tre navate, probabilmente avente funzione religiosa. Se si decide invece di tornare verso la riva ci si imbatte nella necropoli primitiva ad incinerazione, costituita da urne e pietre tombali. A seguire, si incontra il Tophet, un santuario a cielo aperto dove venivano depositate le urne contenenti i resti dei sacrifici umani che i Fenici effettuavano per ringraziare le divinità (Tophet vuol dire, infatti, luogo di arsione o passaggio verso il fuoco) e il Cothon, un bacino artificiale che un tempo rappresentava una piscina sacra. Arrivati nei pressi della porta Sud, con le sue doppie mura, è possibile ammirare, ancora: la Casermetta, di cui sono ancora visibili alcuni elementi verticali; il pavimento della Casa dei Mosaici, ancora in parte ricoperto da ciottoli bianchi e neri che raffigurano animali, e la Casa delle Anfore, alle spalle del museo, che deve il suo nome al fatto che in quella zona sono state rinvenute un ingente numero di anfore.
Ma ecco che abbiamo citato il museo, realizzato proprio all’interno dell’abitazione che fu del nobile Whitaker e che ci permette di entrare nella parte più interessante del nostro viaggio: una autorevolissima raccolta di iscrizioni, frammenti, terrecotte, vasi e ceramiche, quale risultato complesso di relazioni ed influenze culturali tra la tradizione greca e quella indigena della Sicilia occidentale. Oltre a tutto ciò anche un blocco scultoreo, parte di decorazione della porta nord, raffigurante due leoni che addentano il toro ed il “Giovinetto di Mozia”, una statua di marmo bianco dalle forme perfette e risalente alla seconda metà del V secolo a. C.
Ed è in mezzo a questa prestigiosa esposizione che ritroviamo peculiari contenitori come alabastri e unguentari che testimoniano che l’uso dei prodotti cosmetici per la cura e l’abbellimento della persona erano riscontrabili già agli albori della civiltà umana, inizialmente come applicazioni sacrali e, successivamente, come soddisfacimento di esigenze voluttuarie o igieniche. Da allora ai giorni nostri, attraverso pratiche da attribuirsi non solo al mondo femminile ma anche a quello maschile e in particolare, quello degli eroi, la cosmesi ha evidenziato quanto grande sia sempre stato il valore che l’uomo attribuisca al suo corpo. Attraverso esami spettroscopici effettuati su alcuni campioni minerali rinvenuti sull’isola, dunque, si è riuscito a risalire ad alcuni ingredienti naturali utilizzati per il trucco. Ad esempio, pare che il belletto più usato per dare freschezza e candore giovanile alle guance fosse la biacca o cerussa (carbonato basico di piombo), venduta sotto forma di pastiglie da stemperare con grassi e miele. Polverizzando, invece, dei lustrini preparati macinando l’ematite o la mica si creava il colorito. In numerosi residui esaminati, infatti, oltre all’ossido di piombo, sono state riconosciute piccolissime quantità di ematite rossa che conferiva alla polvere una colorazione rosata; ciò ne ha fatto presumere l’utilizzo come polveri per abbellire il viso (qualcosa di simile al nostro conosciutissimo fard). Un’alternativa più economica, invece, pare fosse rappresentata dall’uso di polveri rosate, individuate negli alabastra e costituite da tracce di solfuro di mercurio e gesso.
In moltissimi recipienti, ancora, si è osservata la presenza di anatasio, ovvero ossido di titanio, un minerale naturale usato come pigmento bianco dall’alto indice di refrazione e, per questo, capace di assorbire, riflettere e diffondere la luce. Nel trucco per il viso è tutt’oggi utilizzato per aumentare l’opacità nei prodotti per il make-up, mentre nei formulati solari viene impiegato per la sua abilità filtrante. Con altre sostanze di origine minerale, come il cinabro e il minio, o di origine animale come la porpora, si realizzavano, invece, i rossetti per le labbra venduti in forma di tavolette; in epoca fenicia, le città di Tiro e Sidone erano i principali empori della porpora, per esempio, detenendone il monopolio.
La porpora, tinta naturale proveniente da una conchiglia originaria delle coste siriane, in cui si trovava in grandi quantità, veniva ricavata dal liquido di decomposizione dell’animale che viveva all’interno della valva. Detto liquido dalla colorazione giallastra, se applicato su una stoffa bianca diventava violetto, dunque, variandone la dosatura si poteva ottenere un’infinita varietà di toni che andavano dal rosa al lilla, al violetto pallido, al violetto scuro, etc. Utilizzata, quindi, non solo per tingere le stoffe, la porpora ebbe largo impiego in tutto il mondo greco-romano anche contenuta in molti cosmetici pregiati.
Non meno importanti poi erano gli ombretti: molto diffuso era quello giallo tratto dai fiori del croco, probabilmente di origine etrusca; quelli verdi e azzurri erano ottenuti, invece, dalla macinazione di malachite e azzurrite e venivano applicati impastandoli con dei grassi in piccoli contenitori in alabastro o in conchiglie o riprodotte in ambra. Infine, il contorno occhi e le sopracciglia erano sottolineati con un cosmetico, il fuligo, ottenuto bruciando noccioli di dattero o sarmenti.
Un’isola, dunque, sui generis e per questo una delle attrattive più suggestive della Sicilia occidentale, quella di Mozia, che deve il suo nome probabilmente al Notaio Rosario Alagna di Mozia, che nel XVI secolo il divenne il Barone di Mozia e vi iniziò alcuni scavi archeologici con l’intento di riportare alla luce tutto ciò che l’isola stessa nascondeva; scavi successivamente ripresi, dal nobile Whitaker.
Ma oggi l’isola è anche conosciuta col nome di San Pantaleo poiché, nel XI secolo, un gruppo di monaci basiliani di Palermo la scelsero come sede, attribuendole il nome di San Pantaleo, in onore del santo fondatore dell’ordine.
Cristiana Zingarino